I primi restauri alla chiesa avvennero già in età moderna, tra il 1580 e il 1590, come attesta Angelo Portenari[1]. I frati dopo aver elogiato la buona riuscita dei lavori condotti nell’altare maggiore[2], nel 1578 indirizzarono una supplica alle autorità locali e al Senato per delle sovvenzioni, poi ottenute, per riparare l’edificio religioso che versava in pessimo stato[3]. I lavori vennero appaltati il 22 febbraio a Girolamo muraro da Castelfranco per quanto riguardava il consolidamento statico della navata della chiesa[4]. In contemporanea si decise di ritinteggiare e decorare il tempio. In questo caso l’esecuzione fu affidata a Ludovico Ferracina, e consistette nell’approntare una decorazione pittorica, ornamentale e figurativa, nella navata e nella tribuna. Il contratto, datato 24 febbraio 1579, prevedeva la realizzazione di un fregio ornamentale con figure, festoni, cornize, secondo il disegno dato da esso messer Ludovico impostato di altezza quanto è dalle tavole del soffito per fino alle finestre, la pittura dei modiglioni che sono verso l’altare maggiore e gli ornamenti delle finestre con suoi festoni, cornise et di sotto le cartelle et arme. Il compenso previsto, e poi saldato, fu di 50 ducati. Il 12 maggio 1580 il pittore, invece, viene pagato 104 ducati e 10 soldi per l’ornamento del relogio et dell’organo sopra il muro, per la decorazione sopra gli archi delle sette capele, cioè le cappelle minori a meridione, e ancora per le litre delli tri epitafii e le parti di sopra della casa dell’organo. A questi lavori risulta associato dal 1587 Mattio de Vestal depento che, però, era già presente nel cantiere. Il fregio che corre alla base della copertura lignea è ancora presente, mentre l’altra parte della decorazione è persa. Il 27 gennaio 1589 a Ferracina viene richiesto al prezzo di venti ducati di dipingere sul fronte della cappella maggiore, e tra questa e quella di San Michele, cioè la cappella Dotto, e quella delle campane, cioè la Sanguinacci così definita perchè sotto il campanile. I soggetti da rappresentare sarebbero dovuti essere al centro l’Annunciazione, poi ad arbitrio del pittore nei quattro triangoli nelli fianchi dei volti quattro figure, e ancora sopra il volto grande nella chiave del volto un mundo tenuto da angeli, et nelli dua pillastri dua figure grandi, cioè un San Jacopo e un San Filippo [...] secondo il disegno dato, infine anco i travi della cappella di San Michele et delle campane. Di tutta questa decorazione prima del bombardamento si conservavano solo i due apostoli, mentre oggi rimane solo San Filippo, oltre al fregio ornamentale[5].

Tra il 1610 e il 1614 fu modificata la cappella Cortellieri, nel frattempo passata sotto il giuspatronato dei Savonarola, con l’erezione sopra di essa del capitolo della Fraglia dei Centuriati, il prolungamento del vano e la creazione di una nuova abside[6] .

Alla sala superiore si accedeva grazie ad una scala a chiocciola, inserita esternamente alla chiesa tra la loggia laterale e il portale di Baroncelli. Poi un passaggio sorvolava il protiro della porta e si collegava al vano adibito a capitolo dalla fraglia. L’ingresso era in chiesa tra l’attuale altare dei Santi Anna e Gioacchino e l’uscita meridionale[7]. L’insediamento dei Centuriati nella cappella è deciso il 27 settembre 1609, con precise clausole cautelative del giuspatronato e delle antiche pitture[8]. In realtà gli accordi non furono rispettati, e i confratelli fecero molte cose diversamente et oltre li è stato concesso, scatenando il 27 febbraio 1611 la protesta dei Savonarola[9]. La controversia finì in tribunale con i frati che parteggiarono per la Confraternita. I religiosi accusarono la famiglia di intrommettersi di fatti che non erano di loro spettanza, ponendo l’attenzione sul fatto che originariamente il giuspatronato era dei Cortellieri[10]. A questo punto i Savonarola cercarono il 27 novembre 1614 di diffidare il muraro Francesco Marin e un suo manovale quod in pena ducatorum centum non debbian frangere parietem nec aliquid rinovare in pariete capele[11]. Ma le sentenze del 12 e 16 dicembre dello stesso anno non interruppero i soprusi[12]. Le operazioni ai danni della cappella trecentesca e della decorazione di Giusto non si conclusero, e furono realizzati nuovi fori per le finestre e ulteriori ampliamenti pattuiti il 19 febbraio 1691[13]. Dopo successivi trascinamenti, infine si concluse il dissidio tra le parti[14].

Durante l’età barocca fu murato il varco d’accesso dalla navata per l’anticappella Ovetari, il cui ingresso fu assicurato da una porta costruita come gemella a quella che ancora oggi conduce in antisagrestia. Anche questa apertura venne modificata rimpicciolendo l’originario ingresso di cui ancora oggi si può osservare la sagoma, e costruendo la porta datata 1690, periodo a cui si possono far risalire questi lavori.

Inoltere le grandi monofore della navata verso meridione furono chiuse, e sullo stesso lato si aprirono tre grandi finestre termali.

Con le soppressioni napoleoniche, i frati vennero allontanati dalla casa padovana, il decreto è del 28 luglio 1806. Il convento venne incamerato dall’autorità governativa e riconvertito in caserma militare (“caserma Gattamelata”), la chiesa fu chiusa al culto, riaperta dopo pressante insistenza del presule cittadino due anni dopo, e infine istituita in parrocchia il 24 aprile 1817. Per creare una casa a uso del clero furono murati gli accessi a tutte le cappelle meridionali, eccetto quello della Madonna della Cintura, e creati dei nuovi vani al di sopra delle stesse. Probabilmente in questa occasione si murarono pure le monofore verso settentrione e pure la porta che metteva in comunicazione la chiesa col chiostro del capitolo.

Durante i lavori subiti dall’edificio attorno al 1848, infine, il soffitto a carena di nave di fra Giovanni fu rivestito di un incannucciato a malta e decorato a motivi neogotici, conservando le centinature originali, mentre la chiesa venne uniformemente intonacata.

Le due principali campagne di restauro legate agli Eremitani nel corso del Novecento sono dovute a Ferdinando Forlati, ma già in precedenza l’ingenere, con il collega Max Ongaro, aveva fatto riparare le vetrate della chiesa lesionate in seguito alla prima guerra mondiale[15].

La prima tornata di lavori alla chiesa è avvenne tra il 1924 e il 1929, come possiamo apprendere dalla documentazione conservata sia a Roma all’Archivio Centrale dello Stato che a Venezia alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso: fu essenzialmente un normale restauro in stile, o di liberazione, tanto in voga fin dalla fine dell’Ottocento per riportare il tempio al suo supposto aspetto medievale. Per patrocinare le necessarie attività di ripristino e manutenzione fu creato un comitato per i restauri della chiesa degli Eremitani in Padova, diretto dall’allora parroco don Alfonso Zanon. Nella relazione stesa da Forlati il 19 febbraio 1926 a lavori già iniziati, lo stesso affermava fra qualche anno gli Eremitani di Padova riavranno anche internamente un aspetto rispondente alla magnificenza architettonica trecentesca dell’esterno e agli affreschi del Guariento e del Mantegna[16]. I restauri videro la riapertura delle originarie monofore che illuminavano la grande navata della chiesa, l’occlusione dei tre lunettoni sul lato meridionale[17], la stonacatura delle pareti della chiesa con conseguente riproposta della tricromia originale delle pareti, la riapertura del varco d’accesso all’anticappella Ovetari dalla chiesa e l’eliminazione della decorazione ottocentesca della parte più orientale della famosa volta a carena.

Le finestre furono riaperte nella loro forma primigenia[18], dopo che fu ritrovata la loro sagoma sotto le tamponature, e munite d’infissi in larice con vetri circolari.

Si scalcinarono le pareti dalla tinteggiatura giallastra, per ritrovare l’originaria decorazione a bande gialle, bianche e rosse che si provvide a risarcire delle parti mancanti. Stesso trattamento fu fatto con il fregio decorativo floreale di Ferracina che riveste la parte superiore delle pareti e gli estradossi degli archi della testata absidale[19].

L’arco che metteva in comunicazione la navata con l’anticappella Ovetari fu riaperto demolendo la parte inferiore della parete in muratura e la parte superiore formata invece da un doppio assito ligneo rivestito d’intonaco[20] . Grazie alla demolizione di questo muro furono scoperte importanti pitture. Sull’estradosso dell’arco i due simboli deI da Carrara, nella spalla orientale dall’alto al basso il frammento tardo trecentesco con la testa di San Cristoforo, due putti di scuola mantegnesca, e il Cristo passo sorretto da due angeli di anonimo mantegnesco (attribuito a Jacopo da Montagnana o a Pietro Calzetta).

Riguardo al soffitto fu demolito l’incannucciato seriore, risarcite le centinature, ricostruita la superficie lignea impiegando abete scelto, stagionato e ben piallato, poste in opera le cantinelle e stesa una vernice protettiva. Le cantinelle decorate a tempera seguivano i disegni originali riscoperti sotto lo strato ottocentesco. Le cornici in larice con la loro decorazione furono integrate e ugualmente tinteggiate. Come apprendiamo dalla relazione di restauro datata 5 dicembre 1925, il soffitto a carena, che sino alla metà del secolo scorso, aveva la sua rivestitura lignea riquadrata a cantinelle decorate, era stato sostituito con un soffitto a intonaco, goffamente decorato e che ormai in molti punti andava staccandosi, cadendo saltuariamente con pericolo dei fedeli. Necessitando di provvedere alla riparazione, la Soprintendenza ha insistito affinché esso tornasse a riavere la sua forma originale[21].

Il dattiloscritto inviato il 25 settembre 1929 dal presidente della fabbriceria attesta l’ultimazione dei primi due lotti di restauro, e la fine dei fondi a disposizione[22]. Il terzo lotto di lavori non fu realizzato.

Il progetto di sostituire il pavimento e di riaprire tutte le cappelle della fiancata meridionale alla fine non fu eseguito[23], ma dalla navata furono resi evidenti gli archi tamponati della seconda e della terza cappella dall’ingresso. Gli altri rimasero coperti dagli altari barocchi. Nella parete settentrionale, invece, fu messa in vista la porta per il chiostro, pur lasciandola murata.

La chiesa, dopo questi lavori, riacquistò in buona parte la sua facies medievale, e probabilmente in quest’aspetto si sarebbe tramandata ai posteri se gli eventi bellici non avessero, in larga percentuale, provveduto a sconvolgerla.

La seconda campagna diretta da Forlati tra il 1944 e il 1951 è quella che ha visto lavori di ricostruzione e in parte anastilosi con i materiali originali dell’edificio dopo il disastroso bombardamento anglo-americano dell’11 marzo 1944, quando due grappoli di bombe caddero sull’edificio[24] . Anche in questo caso gli incartamenti sono conservati tra l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e la Soprintendenza già citata[25]. Come afferma Marzio Milani tutto quanto era superstite ritornò al suo posto, dopo lunghe e pazienti prove e riprove sulla base di precisi rilievi[26]. Proprio questi lavori attuati con una particolare procedura per il recupero dei relitti della guerra, che fu messa in atto per la prima volta qui nella chiesa degli Eremitani, furono un chiaro esempio di commistione delle classiche tecniche costruttive e di restauro e le allora più innovative applicazioni della ricerca, e, inoltre, impedirono la perdita completa del tempio degli Agostiniani di Padova. Le bombe scagliate sull’edificio, divenuto un chiaro obiettivo bellico proprio per la vicinanza alla “caserma Gattamelata”, causarono la distruzione della metà destra della cappella maggiore, delle cappelle Dotto e Ovetari, della parte superiore della facciata sopra la loggia, nonché la distruzione quasi completa della volta lignea, saltata in aria dall’esplosione e carbonizzata  per via dell’incendio sviluppatosi dall’impatto delle bombe. Una parte consistente delle opere d’arte conservate nell’edificio andò irrimediabilmente persa, mentre altre furono solamente danneggiate[27]. La ricostruzione fu anche un momento d’interpretazione della struttura conservata e di riproposizione della parte della veste medievale dell’edificio non rimessa in giusta luce nella precedente campagna. I lavori comportarono, infatti, la demolizione delle strutture della casa parrocchiale che era stata costruita sopra le cappelle meridionali, e la riapertura degli accessi a queste dalla chiesa, operazione già ipotizzata nelle ristrutturazioni degli anni Venti ma poi non realizzata. Nel restauro sono senz’altro da segnalare le tecniche innovativa utilizzate da Forlati per rimettere a piombo le murature fortemente inclinate dalla forza esplosiva e dal conseguente spostamento d’aria causato dalla caduta delle bombe, e l’uso, oltre che dei materiali abituali, anche di quelli più moderni. L’ingegnere parlando della tecnica moderna argomentava che essa permette accorgimenti pratici tali da lasciare intatta la superficie esterna, l’involucro di un edificio, tanto nelle strutture murarie come nelle parti decorative, risolvendo così in pieno il restauro di consolidamento. Ritengo infatti che uno dei pochi caposaldi acquisiti dalla moderna prassi sia l’opportunità, direi, in questo momento, la necessità di ricorrere a tutti i mezzi che offre la tecnica moderna perché il concetto di non introdurre nella vecchia struttura materiali nuovi, caro a Viollet le Duc, è ormai superato; in fondo questi elementi moderni, adoperati per inderogabile necessità e sempre con grande misura, costituiscono testimonianze schiette del nostro tempo che certo non trarranno in inganno al futuro studioso[28].

La situazione della chiesa era molto critica; in questa maniera un po’ colorita si esprimeva un giornalista in un articolo pubblicato il 12 dicembre 1945 dopo una visita al cantiere di ricostruzione: il vastissimo tempio agostiniano sorgente nel centro della città, non è ora che un ammasso di rovine, al quale conferisce un aspetto anche più macabro la grande travatura del tetto scoperchiato, che sembra l’enorme scheletro di un cetaceo antidiluviano, emerso da uno sconvolgimento tellurico[29].

I muri superstiti divennero a causa dell’esplosione pericolosamente strapiombanti, con una pendenza che oscillava tra i 32 e i 50 centimetri[30].

Come riferisce lo stesso Forlati, che si recò due ore dopo il bombardamento nel sito della chiesa, senza perdersi d’animo davanti al disastro che aveva davanti agli occhi, con l’aiuto delle sue impareggiabili maestranze, subito si provvide alla raccolta di ogni pur piccolo frammento, segnando su un’apposita pianta il punto di ritrovamento, onde evitare la trista opera dei saccheggiatori. Si raccolsero 109 casse di frammenti di affreschi[31].

Poi iniziarono i lavori di ricostruzione architettonica, anche per proteggere i restanti affreschi di Guariento sulla parete sinistra dell’abside maggiore. Si cercò di utilizzare tutti i mezzi anche i più arditi che oggi consente la tecnica moderna per ridurre al minimo ogni rifacimento[32].

Le ricostruzioni presero avvio dalla parte orientale, cappella maggiore, Dotto, e poi Ovetari e la sua anticappella. Si riposizionarono per anastilosi tutti i frammenti di pietra sagomata ritrovati, spesso con i resti di decorazione pittorica, mentre i pezzi nuovi furono lavorati in maniera differente e su essi si pose la data.

Per risarcire le murature si utilizzarono mattoni vecchi, oltre a quelli recuperati dalle parti demolite dalle bombe, per meglio armonizzarsi alle parti originali, senza scordare però nella riedificazione di evidenziare la parte originaria da quella rifatta grazie a un piccolo solco ripassato in nero. Per l’estate 1946 la parte absidale era ormai di nuovo tutta in piedi[33].

Il 28 gennaio 1946 erano già ricostruite le absidi senza il coperto, ma la cappella Ovetari era ancora da riedificare[34]. Il 21 febbraio 1946 Forlati segnalò che già dal sabato 9 febbraio era stata eretta la crociera dell’abside maggiore, ed erano così stati messi al sicuro gli affreschi di Guariento scampati alla distruzione. Ugualmente voltata era ormai la cappella Dotto, facendo presente che i lavori iniziati da tre mesi furono condotti con alacrità, e per di più portati avanti in economia, senza avere appaltato a un’impresa. Questo fatto permise il risparmio di un milione sui quattro concessi[35]. Il 7 dicembre erano ormai ricostruite le absidi, la cappella Ovetari e l’anticappella, e pure la prima parte della navata. Venne posto l'accento sul problema dei muri strapiombanti da raddrizzare[36].

Le murature superstiti della navata a detta di tutti dovevano andare demolite e ricostruite. Così non avvenne grazie a una tecnologia per la prima volta sistematicamente e in modo continuativo adoperata in questo edificio[37]. Dal gennaio 1947 si è passato poi al raddrizzamento delle murature strapiombanti, raddrizzamento che oltre a consentire un notevole vantaggio economico ha soprattutto permesso di conservare al massimo l’integrità del monumento nelle parti comunque superstiti dalla tragica devastazione della guerra[38]. Come segnala Forlati il primo spezzone di muro raddrizzato fu quello rimasto tra anticappella e cappella Ovetari, largo circa 6 metri per 8 di altezza. Si passò poi a quelli della navata, che avevano un’altezza di circa 14,90 metri, raddrizzando i tratti tra una finestra e l’altra che avevano una lunghezza di circa 8 metri. Il primo tratto rimesso a piombo fu quello a sinistra, che era sensibilmente inclinato con una pendenza fuori asse di circa 32 cm. L’operazione riuscì nonostante il peso di circa 100 tonnellate[39].

Il metodo utilizzato consistette nell’ingabbiare la muratura sui due lati con una robusta orditura di tralicci di travi. Qui fu inserito in punti opportuni un sufficiente numero di tiranti di ferro muniti di manicotti ancorati a dei punti ben solidi. Messo il muro “in bando” disarticolandolo dalla copertura e dalle altre murature od opere a esso addossate, girando con continuità i manicotti, il muro con lievi vibrazioni tornò a piombo. In circa 30 minuti tratti di muro lunghi 7 metri e alti più di 15 tornatarono alla loro giusta posizione. A quest’operazione seguì l’iniezione cementizia ad alta pressione con leganti in cemento armato, che ridona alla compagine muraria tutta la sua solidità e compattezza evitando ogni possibile franamento[40]. L’operazione fu eseguita per tutta la lunghezza della chiesa e per tutte e due le fiancate.

Così lo stesso Forlati commentò questo tipo di procedimento: questo lavoro che ha tutto l’aspetto di un empirismo da vecchi costruttori è stato preceduto da attenti e minuti calcoli che hanno precisato gli sforzi nelle orditure lignee, negli ancoraggi, nei tiranti, nei manicotti e così via[41].

Nello spostamento del monumento Mantua Benavides fu ritrovato il frammentario affresco con la Crocifissione di un anonimo giottesco, già dato al maestro di Galzignano.

A questo punto si procedette alla ricostruzione della parte superiore della facciata con il reinserimento del rosone e della copertura lignea. Riguardo alla copertura Forlati dice: il soffitto a carena venne ricomposto utilizzando al massimo il materiale recuperato e tutta la grossa orditura superstite[42].

Le cappelle meridionali furono ripristinate, a eccezione della quinta e della sesta dall’ingresso che, gravemente danneggiate, furono inspiegabilmente demolite e non risarcite. Tutti i vani posti sopra le cappelle furono eliminati come pure la seicentesca scala per la sala del capitolo dei Centuriati, ormai privata della sua funzione, giacché pure questa fu abbattuta. Resti di pitture si ritrovarono nell’attuale cappella di San Giuseppe.

Sempre durante questi lavori i dossali rinascimentali in controfacciata furono trasportati nella parete settentrionale, permettendo la riapertura delle quattro monofore della facciata. Questo intervento, in realtà già previsto nel terzo lotto dei primi restauri diretti da Forlati, fu eseguito solo ora con la ricostruzione.

La superficie complessiva restaurata raggiunse la notevole dimensione di 900 m2, come esplicitamente indicato dal direttore dei lavori[43].

Al 15 giugno 1951 risale il preventivo per la sostituzione del pavimento, realizzato entro il 29 maggio 1952 come attesta la documentazione[44].

La relazione di collaudo dei lavori ormai ultimati è datata 12 ottobre 1953[45].

Riguardo agli affreschi della cappella Ovetari il tentativo di recuperare i famosissimi dipinti murali è stato frutto di molteplici restauri, indagini diagnostiche e utilizzo delle più moderne tecnologie a disposizione, come l’anastilosi informatica: tutto questo è finalmente approdato a un buon risultato grazie alla ricostituzione della decorazione delle due pareti laterali della cappella, con tutti i frammenti recuperati dopo il disastroso bombardamento. Questi lavori sono stati analizzati e minuziosamente descritti in recenti e ottime pubblicazioni[46], ed è importante sottolineare come a distanza di oltre sessanta anni la moderna tecnologia abbia in parte permesso di ovviare ai danni bellici restituendoci la larva di una splendida e universalmente nota decorazione pittorica.

Si auspicherebbe che l’anastilosi pittorica interessasse anche la cappella maggiore e quella Dotto, anche se probabilmente, soprattutto per quest’ultima, la situazione si complicherebbe notevolmente, per la minore quantità dei materiali fotografici conservati su cui tarare gli standard per i lavori informatici di ausilio all’anastilosi reale dei frammenti. Alcuni frammenti della decorazione della cappella maggiore sono stati esposti alla mostra di Guariento[47]. Emblematico è quanto è capitato al frammento con le compagne di Sant’Orsola. Osservando le due fotografie conservate del frammento in mezzo alle macerie[48], subito si notano notevoli differenze tra la prima e la seconda foto: innanzitutto sembra sia intervenuta un’operazione di restyling prima dello stacco della pellicola pittorica. Inoltre appare chiaro come il frammento si sia in sostanza dimezzato, con la perdita di una figura e di due metà: bisogna ipotizzare un fraudolento furto, come già la documentazione conservata racconta per altri frammenti della decorazione della cappella Ovetari?

Per terminare è giusto porre l’accento su come la lettura che oggi diamo dell’edificio sia viziata dalla sua storia conservativa, e magari dall’interpretazione che i restauratori hanno dato dell’edificio stesso, che in certi casi non ha tenuto in opportuna considerazione il dato archeologico-architettonico, e non si è avvalsa dell’utilizzo del materiale documentario.

[1] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, ristampa anastatica, Bologna 1973, p. 448.

[2] I lavori al nuovo altare maggiore furono decisi per permettere all'interno della chiesa la celebrazione della festa di Santa Marina (17 luglio), riccorrenza in cui si ricordava la riconquista alla Serenissima della città dopo l'assedio dovuto alla Guerra della Lega di Cambrai (1509). Nel 1527 venne abbattuto il tramezzo, e commissionata una nuova pala per l'altare maggiore. I lavori di costruzione del nuovo altare maggiore e dei nuovi stalli posti nell'abside maggiore terminarono nel 1536.

[3] L. Puppi, La chiesa degli Eremitani di Padova. Parte seconda, in S. Bettini, L. Puppi, La chiesa degli Eremitani di Padova, Vicenza 1970, p. 103, e n. 14. Copia delle varie suppliche è conservata in Archivio di Stato di Padova (d’ora in poi ASPd), Corporazioni soppresse, Eremitani, 41, ff. 1r-7r. La pessima situazione segnalata e presente anche nell’istanza al Senato veneziano, Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi ASVe), Collegio VI, Risposte di fuori, 332, alla data 28 luglio 1578. Come già accennato, il finanziamento venne concesso, ASVe, Senato Terra, reg. 52, f. 105-v, dove leggiamo che minacciando rovina la chiesa delli reverendi padri heremitani della città di Padova, quando non le sia riparato [occorre offrire] aiuto per così pia, et santa riparatione e viene trasmesso incarico ai Rettori di Padova di versare, in quattro rate annue, 200 ducati che si ricaveranno dalle condemnationi. Fu concesso esattamente lo stesso importo richiesto dai frati.

[4] ASPd, Corporazioni soppresse, Eremitani, 42, f. 165 r-v. Questo documento è il contratto privato con il muratore, in cui sono specificati i lavori che si dovranno affrontare, tra cui la sistemazione di pilastri (senz’altro quelli d’accesso alla cappella maggiore), e l’apertura e chiusura di finestre. Il patto tra le due parti è confermato con l’aggiunta della richiesta di selciatura del sagrato il 2 giugno 1580. ASPd, Corporazioni soppresse, Eremitani, 42, f. 172r-v; L. Puppi, La chiesa degli Eremitani di Padova. Parte seconda, in Bettini, Puppi, La chiesa degli Eremitani..., cit., pp. 103-104, e n. 15.

[5] ASPd, Corporazioni soppresse, Eremitani, 42, ff. 163 r-v e 231 r-v; per l’attività nella chiesa di Ferracina si veda O. Ronchi, Le pitture di Lodovico Ferracina nel tempio degli Eremitani, “Bollettino Parrocchiale degli Eremitani”, 10 (1936), pp. 5-6; Idem, Le pitture di Lodovico Ferracina nel tempio degli Eremitani, “Bollettino del Museo Civico di Padova”, 56 (1967), pp. 85-92; Puppi, La chiesa degli Eremitani..., cit., pp. 103-104, e n. 15.

[6] Portenari, Della felicità di Padova, cit., p. 447.

[7] Descrizione della chiesa de’ Padri Eremitani, “Diario o sia giornale per l’anno 1762 che contiene le funzioni, che si fanno in Padova; notizie intorno alla fondazione delle chiese, e monasteri; e tutto quello che si dichiara nell’indice al fine. Con alcune notizie su la persona, e fatti d’Antenore fondatore di Padova”, 1762, p. 103. La descrizione settecentesca indica l’altare che si trovava allora in questa parte della chiesa, quello di San Tommaso da Villanova, sostituito con l’attuale dopo le ricostruzioni post-belliche.

[8] ASPd, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, f. 1 r-v.

[9] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, ff. 2 r e 3 r.

[10] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, ff. 83 r- 86 v.

[11] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, ff. 96 r- 98 v.

[12] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, f. 98 r-v.

[13] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, f. 46 r; in allegato vi è il disegno delle finestre datato 21 aprile 1690.

[14] Ivi, Corporazioni soppresse, Eremitani, 43, f. 47 r. Tutta la vicenda è raccontata pure in Puppi, La chiesa degli Eremitani..., cit., pp. 104-105, e n. 16.

[15] I restauri alla chiesa degli Eremitani, “La Libertà. Quotidiano cattolico”, 23 aprile 1921. La stima per questi lavori è datata 29 dicembre 1920, Archivio della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso (d’ora in poi ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv), Padova 0145/002.

[16] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002, Restauro della chiesa degli Eremitani a Padova, dattiloscritto firmato e corretto da Ferdinando Forlati.

[17] Oltre al materiale fotografico storico che attesta la presenza di queste finestre, anche oggi noi possiamo verificare la loro esistenza da una semplice osservazione della parete esterna della chiesa, dove ancora resta la loro traccia.

[18] F. Forlati, Restauro della chiesa degli Eremitani a Padova, “Bollettino d’arte del ministero della pubblica istruzione”, 23 (1948), 1, serie IV, pp. 80-84: p. 82: già nel restauro del 1926 esse erano state riaperte insieme con il grande arcone che immetteva nella cappella Ovetari. La documentazione conservata segnala l’intenzione di riaprire parzialmente le monofore del lato settentrionale, quello verso l’allora comando militare l’11 maggio 1927 (ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002). Le finestre risultano aperte nella parte inferiore il 13 marzo 1928 (ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002) e completamente il 15 febbraio 1929 (ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/004).

[19] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002. Per il restauro alle pareti della chiesa furono finanziati 105.000 lire come attesta la stima dei lavori del 2 dicembre 1926. La policromia delle murature interne era eseguita per l’8 novembre 1927.

[20] Archivio Centrale dello Stato di Roma (d’ora in poi ACS), Progetto di parziale restauro della chiesa degli Eremitani in Padova. Stima dei lavori, datato 5 dicembre 1925 e firmato da Ferdinando Forlati. La stima dei lavori era di 75.000 lire ed era organizzata in più punti: 1) Restauro e ripristino del soffitto in legno a carena, nella parte ribassata verso il presbiterio; 2) Restauro e ripristino della policromia parietale; 3) Restauro e ripristino della decorazione delle volte e delle pareti nelle due absidi laterale; 4) Apertura del grande arcone che [im]mette nella cappella Ovetari; 5) Pulitura dell’imbianco della volta e delle pareti nella crociera antistante alla parte dipinta dal Mantegna; 6) Restauro di due antiche finestre ogivali; 7) Diligente ed accurata saldatura e lavatura delle pareti dipinte nell’abside maggiore, sistemazione delle finestre di essa.

[21] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002 Il restauro al soffitto costò in tutto 25.000 lire.

[22] ACS, mittente della missiva è la fabbriceria degli Eremitani, Padova. La lettera è indirizzata al ministero dell’educazione nazionale. Direzione generale per le belle arti – sezione monumenti.

[23] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/002 Il progetto di ripristino è datato 12 novembre 1926.

[24] S. Nave, L’offensiva aerea alleata. Le missioni militari alleate e la resistenza nel Veneto 1943-1945, Padova 1993, pp. 20-23.

[25] Tra le buste dell’archivio della soprintendenza sono da segnalare: ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/016: costituzione del “Comitato per la costruzione della monumentale chiesa degli Eremitani” diretto da Marzio Milani; 13 luglio 1944: Preventivo delle spese, firmato da Forlati da Venezia; 26 giugno 1945: Lettera del parroco della chiesa don Felice Velluti che richiede si faccia qualcosa per proteggere le opere d’arte rimaste in chiesa; 6 luglio 1945: Vengono segnalati problemi di statica con conseguenza caduta di mattoni della lesionata facciata dopo i recenti temporali. È segnalato il pericolo di ulteriori lesioni alle opere artistiche conservate nella chiesa sventrata; 27 novembre 1945: Forlati richiede al Genio Civile Militare di Padova dei vecchi mattoni dall’ex distretto militare per portare avanti le ricostruzioni.

[26] M. Milani, Arte e tecnica nella ricostruzione della chiesa degli Eremitani, Padova 1961, p. 10.

[27] Non solo gli studiosi d’Italia si occuparono della distruzione della chiesa padovana, questa ad esempio è la descrizione della stampa inglese dello stato dell’edificio dopo il bombardamento: It appears that two bombs, or groups of bombs, fell; one on the façade and the front part of the roof, destroying the upper part of the west front, and the other fell on the east end and, destroying the Ovetari Chapel completely, and all but the north wall and one of the lance windows of the Dotto Chapel […] From the ground plant would appear that the main structure of the Church is not very badly damaged, but a glance at the phographs will show the great extent of the damage to the entire fabric. The great rose window in the west front is destroyed, the beautiful wooden ceiling “alla carena di nave” by Fra Giovanni degli Eremitani, is gone almost completely, and few of the monuments in the body of the Church have escaped the effect of the blast, which must have been terrific in the enclosed space in which the explosions took place, J. Guthrie, A note on the destruction of the Church of the Eremitani, Padua, “The Burlington magazine”, 88 (1946), pp. 122-123.

[28] F. Forlati, Il restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra nel Veneto orientale, “Arte veneta”, 1 (1947), pp. 50-60; E. Sorbo Soprintendenze in guerra tra restauro e resurrezione nazionale, in Guerra monumenti ricostruzione. Architetture e centri storici italiani nel secondo conflitto mondiale, a cura di L. de Stefani, con la collaborazione di C. Coccoli, Venezia 2011, pp. 590-600.

[29] Questa colorita espressione è stata da me utilizzata per un poster presentato a un convegno tenutosi a Brescia nel 2011 (C. Pùlisci, An "antediluvian cetacean": the Church of the Eremitani in Padua after the Anglo-American bombing, in Danni bellici e ricostruzione dei monumenti e dei centri storici nel caso italiano e tedesco (1940-1955), convegno internazionale, Università degli studi di Brescia, 23-25 novembre 2011).

[30] Forlati, Restauro della chiesa.., cit., p. 82.

[31] Ibidem, p. 82.

[32] Ibidem, p. 83.

[33] Ibidem, p. 83.

[34] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/018.

[35] Ivi, Padova 0145/016.

[36] Ivi, Padova 0145/016.

[37] Milani, Arte e tecnica.., cit., pp. 10-11.

[38] Forlati, Restauro della chiesa..., cit., p. 83.

[39] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/016.

[40] Forlati, Restauro della chiesa..., cit., p. 83.

[41] Ibidem, p. 83.

[42] The Illustrated London News, 4th juanuary, 1947, p. 5; La reconstruction artistique en Italie, Roma 1947, p. 20; F. Forlati, Restauro di edifici danneggiati dalle guerra – prov. di Padova, “Bollettino d’arte del ministero della pubblica istruzione”, 36 (1951), serie IV, p. 85. In realtà un sopralluogo da me intrapreso l’8 novembre 2012 mi ha permesso di verificare dal sottotetto che tutti i legnami della fitta orditura della copertura lignea sono quelli della ricostruzione, non presentando le travi tracce di bruciature. L’osservazione non è possibile, invece, dal lato inferiore, poiché la volta con i restauri è stata completamente ridipinta.

[43] Ibidem, p. 85.

[44] ASBAP Ve, Bl, Pd e Tv, Padova 0145/019.

[45] Ivi, Padova 0145/019.

[46] Andrea Mantegna e i maestri della cappella Ovetari. La ricomposizione virtuale e il restauro, a cura di A. de Nicolò Salmazo, A. M. Spiazzi, D. Toniolo, Ginevra – Milano 2006. In realtà vi sono state critiche severe a questo intervento, ad esempio G. Basile, Restaurare Mantegna, in Mantegna e Roma. L’artista davanti all’antico, a cura di T. Calvano, C. Cieri Via, L. Ventura, Roma 2010, pp. 633-654: in particolare le pp. 650-654 (“Europa delle Corti”. Centro studi sulle società di antico regime. Biblioteca del Cinquecento, 148).

[47] Guariento e la Padova Carrarese. Guariento, a cura di D. Banzato, F. Flores d’Arcais, A. M. Spiazzi, catalogo della mostra, Padova - palazzo del Monte di Pietà, 16 aprile-31 luglio 2011, Venezia 2011.

[48] Fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz, foto con il frammento integro 248444; foto con il frammento defraudato di una parte 248447. Questa seconda foto è conservata pure all’Archivio Fotografico FAST di Treviso, Fondo (Ferdinando e Bruna) Forlati, e all'Archivio fotografico della Fondazione Giorgio Cini. Il frammento che è stato sottoposto a restauro, misura 58x49 cm, è ora conservato assieme agli altri provenienti dalla decorazione della cappella maggiore nei depositi della chiesa degli Eremitani. Conserva ancora le tracce dei restauri indicati come avvenuti nel 1589. Questi sono attestati da P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova, Padova 1795, p. 218 ss. e dalla documentazione proveniente dal convento, ASPd, Corporazioni soppresse, Eremitani, 41, Libro della fabricha della chiesa incominciata l’anno 1578 a di 9 ottobre. Esito, ff. 167r e ss., che indica che l’autore di questi restauri, piuttosto estese ridipinture, fu Ludovico Ferracina, che provvide, ad esempio, a rinfrescare li diademi d’oro. Il frammento che ha numero d’inventario ICR n. 69 è stato recentemente riconsegnato alla chiesa (Soprintendenza per i beni storico artistici ed etnoantropologici del Veneto, Atti generali, verbale di consegna del 22 maggio 2006). Una scheda con la descrizione di questo e degli altri frammenti staccati è la n. 33 di Spiazzi, in Guariento..., cit., 2011, pp. 191-197.