Pietro da Rimini
La complessa vicenda biografica e lavorativa del pittore è stata di recente precisata grazie agli spogli documentari di Oreste Delucca[1], e all’operazione critica avviata da Miklós Boskovits[2] e da Daniele Benati[3], che ha portato a rivedere, sulla base di nuove acquisizioni, la ricostruzione dell’intero percorso dell’artista. Ne è emersa una personalità di notevole rilievo, autrice di opere su tavola e ad affresco dislocate soprattutto in Romagna e nelle Marche, e indiscussa protagonista della scuola riminese dopo Giovanni da Rimini. Sulla base della Croce firmata Petrus de Arimino fecit hoc [opus], proveniente dalla chiesa dei Morti e ora nella cattedrale di Urbania, è stato possibile ripensare l’intera parabola dell’artista, ed in particolare Boskovits e Benati hanno suggerito di compattare in un’unica personalità, quella appunto di Pietro, i diversi gruppi stilistici costruiti da Carlo Volpe nel 1965[4]. Si è così giunti a riconoscere che i vari maestri individuati da Volpe (Maestro del Refettorio di Pomposa, Maestro del coro di Sant’Agostino, Maestro di Tolentino, Maestro di San Pietro in Sylvis e di Maestro di Santa Maria in Porto Fuori) corrispondono in realtà a diversi momenti dell’attività di Pietro stesso.
Nell’impossibilità di verificare la notizia secondo cui la firma Petrus de Arimino e la data 1309 si sarebbero lette su un affresco, distrutto nell’Ottocento, nella chiesa di San Marco a Cupra Montana, in provincia di Ancona[5], la critica ha tentato di fissare l’esordio di Pietro a Rimini, nella chiesa di Sant’Agostino, dove taluni gli hanno attribuito la Croce dipinta e parte del ciclo affrescato nell’abside, con le scene del Giudizio e delle Storie della vita di San Giovanni Evangelista[6], databili fra 1315 e 1318.
Alla fase giovanile spettano anche gli affreschi del refettorio dell’abbazia di Pomposa, con l’Orazione nell'orto, l’Ultima Cena, la Déesis, e la Cena dell'abate Guido. I dipinti sono situabili fra il 1318 (data rinvenuta nell’intonaco sottostante ad uno degli episodi affrescati), e il 1320 in virtù di un’iscrizione non più esistente ma letta da Federici[7], che menzionava papa Giovanni XIII (eletto nel 1316) e l’abate Enrico (in carica fra 1302 e 1320). Tale datazione appare confermata dal dato stilistico, poiché i dipinti sono ben confrontabili con gli affreschi dell’abside della chiesa di Sant’Agostino a Rimini. Di poco successivi devono essere gli affreschi del Cappellone di San Nicola a Tolentino: la presenza nel ciclo dell’episodio del Miracolo di Tommaso Parisini, avvenuto nel 1317, costituisce un possibile post-quem per l’impresa, che va ritenuta conclusa entro il 1325 poiché il programma iconografico appare indipendente dagli atti del processo di canonizzazione del santo, avvenuta appunto nel 1325, e dalla sua prima biografia, scritta nel 1326. E’ possibile che la datazione dell’impresa vada collocata addirittura entro il 1322, poiché le miniature dei Commentarii in Evangelia, in Actus Apostolorum et in Apocalypsim (Roma, BAV, Urb. lat. 11), attribuiti da Daniele Benati a Pietro[8], e scritti per conto di Ferrantino Malatesta nel 1322, dimostrano palesi riprese dal ciclo affrescato a Tolentino.
In questi stessi anni si colloca il temporaneo trasferimento in Veneto del pittore, attivo per importanti committenti a Padova e nel Trevigiano. Nel 1324 egli firmava, assieme a Giuliano da Rimini, il polittico destinato all’altare maggiore della chiesa degli Eremitani di Padova, commissionato da frate Niccolò di Santa Cecilia e ora disperso[9]. E’ assai verosimile che nella medesima occasione Pietro realizzasse anche il ciclo ad affresco con Storie di Cristo ora strappato e ricoverato nei Musei Civici di Padova, proveniente da un locale del convento degli Eremitani che la critica ha di volta in volta identificato in una cappella, nella sala capitolare, ovvero nel refettorio[10]. In questo stesso giro di anni si situano i perduti affreschi con Storie di Cristo e di San Prosdocimo della cappella vecchia di San Salvatore a Collalto presso Susegana (Tv), realizzati con il vasto concorso della bottega, forse per adempiere alle disposizioni testamentarie di Rambaldo VIII di Collalto, morto nel 1324[11].
Fra il 1320 e il 1332 il pittore lavora agli affreschi dell’abside della pieve di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo, nei pressi di Ravenna, che si qualificano fra le sue imprese migliori. La cronologia si ricava dalla frammentaria iscrizione posta alla base della Deesis, che ricorda il committente Benvenuto, canonico della pieve nel 1313, e sindaco nel 1320; la stessa iscrizione ricorda pure Guido dei conti di Cuneo, menzionato come arciprete della pieve in un atto del 1323, e sostituito nel 1332 dal nuovo arciprete Palamede da Casella.
Gli esiti più maturi di Pietro si colgono nei cicli che egli dipinse a Ravenna, dove operò in numerosi cantieri nel corso degli anni Trenta del Trecento, in imprese probabilmente collegate alla famiglia dei Da Polenta. Molto vicini al ciclo di Tolentino sono gli affreschi frammentari con Storie di Cristo della chiesa di San Francesco, che andranno dunque considerati il primo lavoro di Pietro in città. Negli affreschi di Santa Chiara a Ravenna - ora strappati ed esposti nel Museo Nazionale -, con Storie di Cristo e Santi, sembra farsi strada un nuovo linguaggio espressivo, più drammatico, che suggerisce di datare l’opera fra la fine del terzo e l’inizio del quarto decennio. A questi affreschi sono accostabili alcune tavolette, fra cui quelle che componevano un dittico con Storie di Cristo oggi diviso in varie collezioni fra Berlino (Gemäldegalerie, Staatliche Museen), Madrid (Collezione Thyssen) e Rimini (Fondazione Cassa di Risparmio). Infine, fra il 1329 e il 1333 andrà collocato il ciclo di Santa Maria in Porto Fuori, distrutto nel corso della seconda guerra mondiale, la cui iconografia assai ricca e complessa, e in particolare la raffigurazione della Decapitazione dell’Anticristo dipinta nell’arco trionfale, è stata letta in rapporto alle travagliate vicende politiche del periodo[12]. A questa fase estrema del percorso del pittore vanno riferite alcune tavole assai vicine agli affreschi di Porto Fuori, quali i terminali della Walters Art Gallery di Baltimora che Zeri ha ricondotto al frammentario Crocifisso ora al Metropolitan Museum di New York[13], da datare entro il quarto decennio.
L’ultima opera nota di Pietro potrebbe essere il san Francesco staccato dalla chiesa di San Nicolò a Jesi, ora conservato nel convento di San Francesco a Montottone in provincia di Fermo, dove compare una scritta tracciata in epoca moderna ma probabilmente tratta da un’originale esistente in un’altra parte del ciclo affrescato, che recita Petrus de Arimino MCCCXXXIII.
Nel 1338 l'artista risiedeva a Rimini, nella contrada di San Bortolo; lì lo citano due documenti del 14 febbraio e del 3 maggio, gli ultimi che lo nominano ancora in vita[14].
[1] O. Delucca, I pittori riminesi del Trecento nelle carte d’archivio, Rimini 1992, pp. 108-111. Si veda pure: A. Marchi, A. Turchini, Contributo alla storia della pittura riminese tra ’200 e ’300: regesto documentario degli artisti e delle opere, “Arte cristiana”, 80 (1992), 97-106: 103.
[2] M. Boskovits, Da Giovanni a Pietro da Rimini, “Notizie da Palazzo Albani” 17 (1988), 1, numero monografico, La pittura fra Romagna e Marche nella prima metà del Trecento. Gli apporti di Rimini e di Fabriano, atti del convegno (Mercatello 1987), a cura di R. Budassi, P.G. Pasini, pp. 35-50: 42-50.
[3] D. Benati, Gli affreschi nel Cappellone di Tolentino, Pietro da Rimini e la sua bottega, in Arte e spiritualità negli ordini mendicanti. Gli Agostiniani e il Cappellone di San Nicola a Tolentino, atti del convegno (Tolentino, 1991), Roma 1992, pp. 235-242; Idem, Pietro da Rimini e la sua bottega nel Cappellone di San Nicola, in Il Cappellone di San Nicola a Tolentino, a cura del Centro Studi Agostino Trapè, Milano 1992, pp. 41-71.
[4] C. Volpe, La pittura riminese del Trecento, Milano 1965.
[5] A. Anselmi, Memorie del pittore trecentista Pietro da Rimini, “La Romagna”, 3 (1906), pp. 443-447.
[6] A. Tambini, L’affresco del Giudizio di Sant’Agostino, “Romagna arte e storia”, XII (1992), 35, pp. 17-30. Tale attribuzione ha tuttavia incontrato pareri discordi; si veda in proposito: M. Medica, Pietro da Rimini (voce), in Il Trecento riminese. Maestri e botteghe tra Romagna e Marche, catalogo della mostra (Rimini, 20 agosto 1995-7 gennaio 1996), a cura di D. Benati, Milano 1995, pp. 291-293; D. Benati, Pietro da Rimini (voce), in Enciclopedia dell’Arte Medievale, a cura di A.M. Romanini, vol. IX, Roma 1998, pp. 408-409.
[7] V. Federici, Rerum Pomposianum Historiae, I, Roma 1781.
[8] Benati, Gli affreschi nel Cappellone di Tolentino..., cit., pp. 239-240.
[9] Le notizie si ricavano da un’iscrizione tracciata sulla cornice del dipinto, riportata in un documento pubblicato in: A. Moschetti, Studi e memorie di arte trecentesca padovana, III, Giuliano e Pietro da Rimini a Padova, “Bollettino del Museo Civico di Padova”, 7 (1931), 1-4, pp. 201-207.
[10] Per una sintesi del problema e delle ipotesi finora avanzate negli studi, si veda: F. Pellegrini, in Guariento e la Padova Carrarese. Guariento, catalogo della mostra (Padova, Palazzo del Monte di Pietà, 16 aprile – 31 luglio 2011), a cura di D. Banzato, F. Flores D'Arcais, A.M. Spiazzi, Venezia 2011, pp. 102-103, cat. 4; C. Pùlisci, Il complesso degli Eremitani a Padova: l’architettura di chiesa e convento dalle origini a oggi, tesi di dottorato di ricerca in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo (XXV ciclo), Università degli studi di Padova, supervisore G. Valenzano, anni acc. 2010-2012, pp. 165-169.
[11] G. Fossaluzza, Gli affreschi nelle chiese della Marca Trevigiana dal Duecento al Quattrocento, Treviso 2003, 4 voll., I, pp. 223-279; T. Franco, “Pro honore altissimi Salvatoris mundi et ipsius domini comitis”: la magnificenza signorile dei Collalto e dei da Camino, in Medioevo: la chiesa e il palazzo, atti del convegno (Parma, 20-24 settembre 2005), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2007, pp. 280-290.
[12] Il ciclo è stato ben studiato da Fabio Massaccesi, che ne ha proposto una precisa ricostruzione sulla base delle testimonianze fotografiche, e una lettura iconografica assai approfondita: F. Massaccesi, Politiche pontificie e immagini: la committenza di Aimerico di Châtelus a Ravenna, in Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto, catalogo della mostra (Bologna, 3 dicembre 2005-28 marzo 2006), a cura di M. Medica, Cinisello Balsamo (Mi) 2005, pp. 95-105; Idem, Committenza nella Romagna pontificia di primo Trecento, in Giovanni Baronzio e la pittura a Rimini nel Trecento, catalogo della mostra (Roma, 14 marzo-15 giugno 2008), a cura di D. Ferrara, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, pp. 37-57: 38-50.
[13] F. Zeri, Italian Paintings in the Walters Art Gallery, I, Baltimora 1976.
[14] Delucca, I pittori riminesi..., cit..
Zuleika Murat